Trionfo assoluto della scarpettiana “Il Medico dei pazzi”, in cartellone al Teatro delle Arti, con nove incredibili solisti in palcoscenico
di OLGA CHIEFFI
Scarpettiana di raffinatissima lettura quella offerta nel week-end al Teatro delle Arti di Salerno, dalla compagnia affiatatissima, nove solisti di rara vis comica, magnifici interpetri de’ Il Medico dei pazzi “orchestrati” da Claudio Di Palma. Sabato in teatro per i liceali di Salerno, i quali prima dello spettacolo hanno incontrato l’intera compagnia, che si è raccontata in toto sotto il fuoco di fila di domande e curiosità. E’ “Il medico dei pazzi”, l’ultimo grande successo scritto Eduardo Scarpetta, che conta oggi centoquattordici anni, la spensierata commedia degli equivoci in cui non c’è nessun personaggio che gioca il ruolo effettivo di “pazzo”, come insinua il titolo, ma che ingegnosamente assegna a questa categoria l’intera squadra di bizzarri protagonisti, impegnati in esilaranti siparietti.
Il copione originale è stato alleggerito, scrostato da quelle ordinarie tradizioni: sono stati eliminati vari personaggi, minori, che Scarpetta creava per offrire un ruolo a tutti e tener ben salda e senza invidia la compagnia, evitando, così diverse lungaggini e forzature, conservandone la sostanza, il congegno comico. Dopotutto è la necessità del Teatro comico riadattare un testo per renderlo fruibile al gusto del pubblico del tempo in cui la rappresentazione viene svolta. Lo stesso Scarpetta si ispirò ad una pochade del Vaudeville francese, che a sua volta sembra derivi da una novella del teatro greco, ma che Claudio Di Palma sposta avanti nel tempo, negli anni ’50, tempi in cui tutti intendevano andare in vacanza, al mare stipati nelle Topolino, era lo status del piccolo borghese, arrampicatore sociale, che voleva e doveva ostentare.
E’ la storia che si evolve, che ci obbliga a guardare le cose da posizioni diverse. In questa commistione tra pazzia e normalità, un classico della commedia napoletana, è offerta la possibilità di ridere di noi stessi, talvolta “sani” portatori di stranezze nella quotidianità.
Elogio alla follia, quindi, quale valido antidoto alla vita di tutti i giorni, spesso suggestionata dall’annoso dubbio: “E che, so’ pazzo io?”. Sarà quindi, Ciccillo, un convincente Luciano Giugliano, a vestire i panni del burattinaio, sostenuto dal grande tenore Michelino, un esilarante Renato De Simone, per difendere, un po’a mo’ di difesa d’ufficio dall’imputato, giovane di provincia caduto nella tentacolare Napoli di cartapesta. Sarà lui a tirare i fili di tante figurine che evocano, coi loro modi, antiche e universali immagini di una età ingenua e felice. Infatti, lo zio Felice è subissato dagli eventi che gli cadranno addosso, coinvolto in una serie di situazioni imbarazzanti, spesso anche “pericolose”, scambiato anche lui per l’unico pazzo vero. Anabasi e catabasi della maschera di Feliciello, un eccezionale Massimo Di Matteo, che diventa prima scarparo, poi piccolo borghese, quindi il borghese agiato, de ‘O scarfalietto, il piccolo borghese disagiato di Miseria e nobiltà. Fino a diventare, come nel punto finale di una parabola, il cafone arricchito che viene dall’entroterra napoletano e che va fiero del suo amato nipote. In Sciosciammocca si unifica, infatti e si compendia il vasto repertorio scarpettiano. L’attore cerca, a volte, di sottrarsi all’oppressione della maschera, ma vanamente, la maschera è il volto stesso, che in Massimo Di Matteo ha ricordato Martufello. Erano nove i solisti sul palcoscenico, rappresentanti le diverse categorie di una società con diverse ombre: oltre i tre protagonisti, quella “follia” racchiusa nello scarto fra la realtà e l’immaginazione, fra la miseria quotidiana e i sogni assurdi, nelle mire opportunistiche di affrancamento economico di donna Amalia, Angela De Matteo, nel conservare lo status di socio del club di equitazione del direttore Don Carlo cui ha dato voce Peppe Miale e del violinista, Giovanni Allocca, che intende sviolinare in tournée e far fortuna all’estero, scambiando Don Felice per il suo accompagnatore, e ancora il barista Peppino, Antonio Elia, aspirante scrittore, per chiudere con Rosina, interpretata da Valentina Martiniello, una compagnia dai ritmi e dai toni giusti, con quella miracolosa capacità di invenzione, creando un meraviglioso microcosmo, nel quale si porranno e risolveranno con il loro inconfondibile gusto per il witz, per dirlo in modo musicale, talismano per godere del loro sterminato scire teatrale. La musica c’entra sempre poiché sulle battute finali “me ne voglio turnà ‘o paese, a Napoli me so’ stunato/Però ve dico na cosa: nun cuntate a nisciuno chesto che v’è succieso /Perché?/ Perché sò cose che fanno ridere ‘a gente./Ne siete certo? Certissimo /Io… non ancora” è partito il Waltz di Dmitrij Shostakovich, dalla Jazz Suite n.2, che ci ha catapultato nel mondo dell’orchestrina, con le ancheggianti armonie e l’insinuante tema carico d’ironia, nella sua visione disincantata e spietatamente critica della borghesia.