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Vita e morte nel kèpos di Madama Butterfly

  • Settembre 5, 2024
  • Olga Chieffi
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Shyosei, Ishinki e Tensei Tenmoku, le pietre di Kan Yasuda per schizzare lo spazio mentale e fisico di Cio-Cio-San nell’idea di giardino, sottolineata dalla regia di diafana di Vivien Hewitt, per l’evento speciale del LXX Festival Puccini. Vincenzo Costanzo è un Pinkerton generoso ed esuberante negli acuti, Valeria Sepe vince la sfida di rendere le infinite e simboliche sfumature timbriche del ruolo, Anna Maria Chiuri sceglie di essere una Suzuki confidente e madre. Jacopo Sipari di Pescasseroli si è posto al servizio dei cantanti agevolandoli su di un palco non facile, assumendosi l’onere di una lettura originale

di OLGA CHIEFFI

“Amiamo il bello ma con semplicità” dice il Pericle di Tucidide agli Ateniesi; “Vogliatemi bene / un bene piccolino, / un bene da bambino / quale a me si conviene. Noi siamo gente avvezza / alle piccole cose / umili e silenziose”, chiede Madama Butterfly a Pinkerton. Della Madama Butterfly di Kan Yasuda, Vivien Hewitt e Jacopo Sipari di Pescasseroli che è andata in scena al Gran Teatro Puccini l’ultimo giorno di agosto, evento speciale del LXX festival, per la doppia celebrazione del centenario della scomparsa del genio lucchese, nonché dei 120 anni dal primo volo della farfallina, abbiamo accolto l’invito ad abbandonarci al “gioco” delle associazioni, delle visioni, partecipando a pieno alla mise en scene dell’opera. Shyosei, Ishinki e Tensei Tenmoku, le pietre di Kan Yasuda per schizzare lo spazio mentale e fisico di Cio-Cio-San, che ci ha portato alla mente l’idea di képos rivelante contenuti vitali, che esprimono desideri e speranze maturati dall’eterno spazio femminino. Le grandi pietre di Kan Yasuda a cominciare dallo Syosei due ali di farfalla o la porta del Kèpos-utero, recinto dell’amore e della vita, in fondo al palcoscenico lo Ishinki, il grande sasso, non lontano dalla forma di un uovo, di un cuore o di un feto, i simboli del primo atto, a cui si lega il concetto indissolubile di vita, desiderio del luogo felice, fecondità, vita, in una stagione propizia, un gioco continuo tra il bello e il sofferto. Nel secondo atto le porte dell’impossibile, leggere e incombenti, Tensei Tenmoku, simbolo di una decisione, quella della morte, di un tempo troncato, per riconquistare onore e quei “valori” religiosi, sacrali, culturali e, aggiungiamo, naturali, di una società che Cio-Cio-San aveva tradito e da cui era stata rifiutata. Regia essenziale quella di Vivien Hewitt, come si conviene, con grande attenzione alla gestualità, alla sua limpidezza diafana, alla tradizione teatrale nipponica, supportata dalla costumista Regina Schrecker, la quale ha vestito la Butterfly con un obi bianco spalmato di materiale iridescente, come la farfalla dalle ali di vetro, per poi trasformarla, nel secondo atto, in una farfalla notturna, grigia, portatrice di presagi e sventure, e ritrovarla nel finale, come nel I atto, in semplice abito bianco sovrastato da un mantello rosso da sposa in organza. Jacopo Sipari di Pescasseroli, il quale calca il palcoscenico del Gran Teatro Puccini sin dal suo debutto in Bohème nel 2016, si è assunto l’onere di una lettura originale, sempre vigile, precisa e appassionata, attenta ad ogni particolare d’orchestra e di scena, fomentata da una sorta di vocazione particolare e di fraterna affinità verso l’autore. Nessun scoppio in orchestra, anche se voluto e cercato, poiché l’amplificazione appiattisce, comunque, il suono ed ecco spiegata la sua virata lontana da muscolosa energia a vantaggio d’una raffinatezza di tratti e d’una introspezione psicologica, che ha portato il Maestro Sipari a puntare essenzialmente sulle voci, assegnando al discorso orchestrale una funzione quasi subordinata, scegliendo quei tempi, giusti, che hanno consentito perfettamente il dispiegamento del canto. Onnipresente, però, il braccio sinistro del direttore abruzzese il quale, in particolare nel preludio, non ha voluto nemmeno sapere cosa facesse la mano destra, che ha pur condotto e tenuto insieme una formazione sensibilissima, specialmente nella sezione archi, interpretando la partitura dal principio alla fine. Nel preludio, la regista ha rievocato il passato e anticipato, omaggio alla concezione pucciniana, le scelte di Cio-Cio-San, ovvero quel ritornare ad essere una geisha o scegliere di obbedire all’invito della spada “Con onor muore chi non può serbar vita con onore”. Arriva in palcoscenico la porta Tenmoku che s’incastra con Tensei, elemento non lontanissimo dalla croce: la morte fa da “linea d’ombra”, che affonda nell’inconoscibile, nel perturbante, quella sottile linea di demarcazione, sempre presente, mai visibile, per tutti, da Pinkerton a Dolore, come in Bohème. Scelta di un cast, da parte della direzione artistica, non certo omogeneo, con il coro, preparato da Roberto Ardigò, mai all’altezza del proprio non semplice compito su di un palcoscenico, apertissimo, particolarmente difficile, dove addirittura per l’intero II atto si è dovuto combattere con l’eco di una discoteca che ha investito dei suoi rumori e ritmi l’intero Gran teatro, con i tre protagonisti sugli scudi, a cominciare da Valeria Sepe nel ruolo del titolo.

Voce ricca di armonici la sua, con acuti accarezzati da splendidi filati, in particolare, nella richiesta di quel “bene piccolino, da bambino”, che sta per non essere più considerata oggetto per soddisfare solo bassi istinti e, naturalmente, nell’aria più attesa “Un bel dì vedremo”, buona attrice, in qualche momento con timbro vistosamente più profondo, prima che nell’ultima parte la voce si lasciasse andare ad adeguate trasparenze, prima di “Tu, piccolo Iddio”, conquistando l’intero uditorio. Vincenzo Costanzo è stato un Pinkerton generoso ed esuberante negli acuti, a volte anche troppo, in particolare in “Addio, fiorito asil”, colto in una felicissima e adrenalinica serata, in cui si è concesso il lusso di portare in collo la sua Butterfly per tutto il palcoscenico in salita, nel finale del I atto; simbolo di quella vivacità tutta latina d’istinto teatrale, che nei duetti si è dissolta in accorte mezze voci senza gesti falsi, né toni di voce non consoni. Anna Maria Chiuri è stata una Suzuki di eccelsa scuola vocale e teatrale, la cui dolcezza vellutata del timbro e la nobiltà della figura hanno concorso a fornire una soggiogante presenza scenica al personaggio della cara “tata”, che si trasforma man mano in confidente, sorella, in particolare nel duetto “Scuoti quella fronda di ciliegio”, quindi, protettiva madre. Da dimenticare la prova di Sergio Bologna, sia vocalmente che teatralmente, una voce decisamente sulla via del tramonto, per un personaggio importante come Sharpless, così come il Goro di Manuel Pierattelli, anche forse castigato da un’amplificazione attraverso cui la minima sbavatura viene esaltata. Tra i comprimari nota di merito per il Principe Yamadori di Italo Proferisce, mentre poco incisivo, carismatico e furibondo è risultato lo Zio Bonzo di Gaetano Triscari. Dignitose le prove  per il Commissario Imperiale di Enzo Ying, l’Ufficiale del Registro di Alessandro Ceccarini, la convincente Kate Pinkerton di Claudia Belluomini e ancora, la Madre di Maria Salvini, la Zia di Greta Buonamici, la Cugina di Irene Celle e Yakusidè di Rocco Sharkey. Ottimo debutto del piccolo Nicholas Ori, per la prima volta in palcoscenico, nella parte di Dolore, dove è riuscito a divertirsi  calandosi nel “gioco serio” che è il teatro, la vita. Applausi per tutti con diverse chiamate al proscenio per tutti i protagonisti, mentre siamo già in spasmodica attesa per il debutto assoluto nel ruolo di Madama Butterfly di Marina Medici il 7 settembre.

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