Colto e raffinato l’omaggio del fisarmonicista francese a Michel Legrand sul palcoscenico del teatro Verdi, ospite del cartellone di Tempi Moderni dedicato alla Nouvelle Vague.
di OLGA CHIEFFI
E’ arduo definire il suono e quell’arazzo di timbri che è la fisarmonica cromatica di Richard Galliano. Ci viene incontro il greco, in un termine, che ha in “fusa” la sua etimologia, soffio e “armonikòs”, dove fusa apre a fhysis, natura, in una mescolanza simbolica che è alla ricerca del nuovo linguaggio.
Un danzare in musica, quello di Galliano, alla ricerca, dell’articolazione di un ritmo personale, del voler esprimere una pronuncia tutta personale, che rende stilisticamente inconfondibili, al primo attacco, il suo strumento di musicista a tutto tondo, latore di quel gioco di mutazioni, del voler a tutti i costi incarnare in uno stilema la concezione propria di ritmo che è parte integrante dell’estetica stessa della musica di Galliano, come quella particolare idea di suono che resta un altro parametro che sollecita parallelismi con la ricerca linguistica del Novecento eurocolto, in cui tanto valore è attribuito al colore, al timbro. Un’idea di suono intesa come la voce personale dell’artista e riflettente quella dialettica voce-strumento, strumento-voce. Suono inteso come “voce interiore”, trasformantesi in canto d’amore, nostalgico o sintetizzandone energia e messaggio, trascinandovi dentro il suo sentire, descrivendone virtù e storia e riverberi mitici e al tempo stesso utilizzandoli come materiale tematico da sviluppare in questo origiale rècital salernitano, che ha trovato la sua piena dignità jazzistica nella libertà del flusso ritmico e della modulazione del fraseggio, nella varietà di accenti ed espressione, nella profondità del ludus harmonicus. Richard Galliano è stato ospite dell’Associazione Tempi moderni, intessendo un talk con il direttore artistico musicale della rassegna Carlo Pecoraro ed il pubblico, sulla figura di compositore quale è stato Michel Legrand e di quell’avamposto del jazz europeo che è stato Parigi, un incrocio sonoro particolare in cui i diversi generi si sono influenzati a vicenda, così come i compositori, facendo crollare quei muri blocchi di granito di certa accademia e accogliendo la musica afro-americana e ritmi latini, massimi protagonisti del secolo breve, i cui interpetri, tra l’altro, hanno fornito anche un “Launching pad”, per dirla con un brano di Duke Ellington – che tanto ammirava gli impressionisti sia pittori (lui avrebbe desiderato dipingere) che musicisti – alla tecnica di tutti gli strumenti. Galliano ha poi raccontato le sue personali esperienze con i capiscuola, da Stan “Stanny” Getz a Bill Evans, sino a Chet Beker, alla atavica disquisizione sulla lettura della musica da parte dei jazzmen (per avere la famosa tessera per esibirsi nei locali bisognava saperla leggere) sull’istinto, sull’ispirazione compositiva. Quindi ci si è trasferiti al teatro Verdi. Il palco ha rivelato qualche elemento dell’Adriana Lecouvreur di Cilea, di quel principio del Novecento che ben amalgama con la musica che abbiamo ascoltato. Il concerto è principiato con “The Windmills of Your Mind”, in latin passando per “Watch What Happens”, “You must believe in spring” diventato un vero evergreen, così come lo sono diventati: “The summer knows” e quella meravigliosa “Once upon a summer time” interpretata anche da Chet Baker e Bill Evans, passando poi per composizioni originali quali “Le Fou-rire, un pezzo brillante giocato sui sovracuti o “Chat pitre”, una melodia lirica, ironica sfuggente e ammiccante. Diversi gli omaggi a cominciare da Bach per il Tango pour Claude in cui Galliano a Satie con Gnosienne n°3 e la semplicità ibrida di Gymnopedie n°1 un ¾ in Re maggiore che dà l’impressione del binario, il fascino dell’ibrido che è anche quello del Bolero di Ravel, e nel Blue Rondò a la Turk di Brubeck, che è stato eseguito da Galliano remembering Bill Evans, quel 9/8 dalla pulsazione irregolare, che lo fece diventare un Time Out. Paris violon di Legrand e Sous le ciel de Paris di Hubert Giraud Richard Galliano per continuare quel dialogo raffinato, fatto di completezza espressiva e grande varietà dinamica e interlocutiva di quella “drammaturgia” sonora quanto mai sofisticata, resa attraverso un’esecuzione di una trasparenza assoluta e di luminosità smagliante, incisiva nel profilare la nettezza di tratti e contorni, con Legrand e l’intera scuola francese. D’altra parte, la ragione semantica della musica emerge, nel continuo divenire del “ludus harmonicus”, il gioco dell’invenzione e della mutazione, come una indescrittibile ed immanente intuizione del noumeno. Conclusione affidata a Autumn leaves, con il suono della melodica (non a piano ma a bottoniera, come la sua fisarmonica) con le note della Marseillaise nel finale nel registro “accordina”. Applausi e bis con l’immancabile omaggio ad un altro dei suoi maestri, Astor Piazzolla con Oblivion, che si è trasformata nell’ossessivo Libertango e per la seconda chiamata al proscenio “Bebè”, omaggio ad Hermeto Pascoal e ai ritmi brasiliani, che per la prima volta aveva affrontato, quale ospite di Chet Baker e del Boto Brazilian Quartet.