Unico titolo pucciniano per l’anno del centenario, ci suggerisce il fondo de’ “Il Castoro. Si continuerà con l’invocata Italiana in Algeri di Gioachino Rossini, mentre il conservatorio “G.Martucci” si cimenterà in autunno con il Donizetti dell’Elisir d’Amore e per il finale di stagione, tornano Traviata e Schiaccianoci
di OLGA CHIEFFI
Anno celebrativo questo, del centenario della scomparsa di Giacomo Puccini, ma lo spettro dei tagli finanziari alla cultura, una mannaia ben affilata affinchè “la lama guizzi, sprizzi fuoco e sangue” ha colpito pesantemente la stagione del Teatro Verdi di Salerno. Inaugurazione e unico titolo in cartellone di Giacomo Puccini sarà Bohéme, in cui il nostro compositore per la prima volta e forse al grado più alto sperimentò la liturgia dell’opera svincolata dai propositi narrativi per accedere alla poetica dell’impressione e della reminiscenza. I personaggi corrono verso un destino che si precisa al di là dei loro appetiti sentimentali e si stagliano in un universo neutro, che è quello della giovinezza prima felice e poi sfiorita, vero simbolo dell’opera che trascina in posizione gregaria azione e personaggi stessi. Seguirà l’ Italiana in Algeri”, di Gioachino Rossini, rimasta ai box lo scorso anno, ovvero le avventure dell’italianissima Isabella, che conosce la grande, squisitamente femminile arte di rendere fessi gli uomini, specie se turchi e per giunta califfi, bey, in fregola per rinforzare gli harem, tra archi, pozzi e falci di luna. Isabella, tanto invocata dal pubblico salernitano, interverrà direttamente dai veloci scafi dei corsari algerini vera donna rossiniana, padrona di sé, sempre d’iniziativa, tutta d’un pezzo, più audace dell’uomo, specchio di un realismo pratico dove si riflettono le stramberie maschili.
Sarà Riccardo Canessa, a cimentarsi nell’ Elisir d’amore di Gaetano Donizetti, titolo scelto dal Conservatorio “G.Martucci” di Salerno, del quale il regista napoletano è docente, per far assaggiare buca, palcoscenico e uditorio, ai propri allievi. Vicenda, libretto e musica formano un miracolo di perfezione che fa di questo lavoro uno dei massimi risultati del teatro in musica. L’opera conta due soli personaggi buffi, Belcore e Dulcamara: il primo caricatura del militare galante e il secondo, il dottore ciarlatano. Quanto agli altri personaggi, i veri protagonisti, Nemorino e Adina, il primo appartenente alla categoria dei ragazzi timidi e sentimentali, sospirosi e facili alle cotte, mentre lei, pur facendo la civetta e dandosi delle arie, è in fondo una donna semplice e innamorata, suscita il sorriso per il suo carattere squisitamente femminile, per la simpatica malizia. Intorno, comunque, dovrebbe spirare una rustica aria di paese, che l’orchestrazione rende ancor più agreste. Gli abitanti danno l’idea di vivere fuori dal mondo, ma in realtà ne sanno una più di Dulcamara, con il loro sornione, concreto agnosticismo, che in sostanza profitta ora di questo, ora di quell’altro che capita in giro. Il pudico ingenuo Nemorino riuscirà a far breccia nel cuore della “fittaiuola” con la tenerezza della sua commovente devozione, e non per merito del filtro al Bordeaux ( ma non si sa cosa inventerà Riccardo….) e siccome in quel mondo tutto da sempre, va per il meglio, anche i ciarlatani giungono a proposito, sulla celebrata “suonata” di tromba. Finale natalizio con il balletto Lo Schiaccianoci un sogno iniziatico quello di Clara che rispecchia il sogno di tutti noi, ragazzi e adulti, e sottolinea il confine tra realtà e immaginazione, invitandoci a riflettere, su quell’onda sonora di inimitabile bellezza firmata da Pëtr Il’ič Čajkovskij. Durante questo viaggio compie delle scelte anche quando queste sembrano contrastare con la società rappresentata dagli altri viaggiatori. E’ questa l’essenza de’ “Lo Schiaccianoci”: anche noi come Clara sogniamo un mondo migliore dove poter realizzare i nostri sogni e le nostre ambizioni. Sul tavolo della direzione del teatro Verdi, di Daniel Oren e Antonio Marzullo, erano in gioco ben altri titoli, a cominciare da La fanciulla del West, Gianni Schicchi, Norma, è stata cassata dal cartellone del nostro massimo, la IX sinfonia di Ludwig Van Beethoven, simbolo di libertà e di pace. Finale di stagione affidato a La Traviata, indubbiamente insieme a Lo Schiaccianoci titolo riempi cassa e ben conoscuti da pubblico e orchestra. Violetta nasce come simbolo di una esclusione e si attesta quel vessillo di rivolta; ma una cosa dev’esser subito chiara, cioè che l’unica trasmutazione di stato che questo personaggio può rivendicare è quello che le offre la musica, al di là di ogni compiaciuto engagement. La Traviata è l’ultima opera di Verdi in cui resiste ancora il concetto di belcantismo, che egli abbondonerà per un modello di conversazione in cui gli sarà più facile far apprezzare la nuova dimensione dialogica o, se si vuole, realistica del suo canto, che conduce “La Traviata” al suo destino di opera intimista che affida il suo fascino all’interiorizzazione, persino in quelle due feste che dovrebbero, invece, rappresentarne il risvolto: si tratta soltanto di proiezioni esteriori di uno stato di solitudine, vettore di rimembranza. Tempus fugit.