di OLGA CHIEFFI
“La musica sembra essere la più esigente fra le arti, la più difficile da coltivare, e quella di cui le produzioni sono molto raramente presentate in condizioni che permettano di apprezzarne il valore effettivo, di vederne chiaramente la fisionomia, di afferrarne il senso intimo e il vero carattere. Di tutti gli artisti creatori, il compositore è l’unico, si può dire, che dipende da una folla di intermediari, posti tra il pubblico e lui stesso; intermediari intelligenti o stupidi, devoti od ostili, attivi o inerti, i quali possono, dal primo all’ultimo, contribuire a far risplendere l’opera d’arte, come possono sfigurarla, calunniarla, quasi completamente distruggerla.
Il più temibile, a mio avviso, è il Direttore d’orchestra. Il suo compito è complesso, egli deve non soltanto dirigere, secondo le intenzioni dell’autore, un’opera già conosciuta dagli esecutori, ma deve anche rendere questi partecipi di tale conoscenza, quando si tratti di un’opera nuova. Egli deve fare la critica degli errori e delle manchevolezze di ciascuno durante le prove”. E’ l’Hector Berlioz de’ “Le chef d’orchestre: théorie de son art”. E’ una seduzione pari al bagliore del Rheingold di wagneriana memoria, quella che attanaglia non pochi eccellenti musicisti, un daimon incontenibile, che ruggisce imperioso anche nel grande violinista Stefano Pagliani, vanto assoluto del magistero violinistico del Conservatorio di Musica “G.Martucci” di Salerno. Lo scorso anno dal podio della formazione sinfonica dell’istituto Stefano Pagliani intese proporre la più difficile delle opere sinfoniche di Petr’ Il’ic Cajkovskij, la IV in Fa minore op.36, quest’anno passo doble, con il concerto di Jean Sibelius in Re per violino e Orchestra Op.47, con solista il suo collega Gennaro Cardaropoli e un’altra pagina di rara intensità e difficoltà, la prima sinfonia di Johannes Brahms. Sibelius è una miscela di forza, tristezza, fierezza e fragilità, una drammaticità incalzante, che non può e non deve essere solo del solista, che, tra l’altro, si è dovuto chiaramente adattare ad un forzato dialogo con un’ orchestra che non è riuscita a sposare alcuna proposta di narrazione, impegnata a contare col naso sugli spartiti, in particolare i fiati. Archi curatissimi, con Konzertmeister Domenico Giannattasio, non certo nuovo a questo compito, violoncelli guidati da Dario Orabona, viole croce e delizia di ogni conservatorio per la loro penuria, quindi anch’esse sostenute da professionisti, contrabbassi agli ordini di Giovanni Rinaldi, prima parte del nostro teatro. Il resto dell’orchestra in chiaro affanno, come nell’adagio in cui il tema iniziale viaggia verso un’intensa scrittura sulle doppie corde mentre l’orchestra procede con l’ansimare delle sincopi, poi, unite al tremolo degli archi, e ancora passaggi virtuosistici che confluiscono nella vibrante ripresa ora affidata all’orchestra dove non abbiamo mai percepito il necessario impasto tra viole, clarinetto, fagotti e oboi, fino al finale quell’allegro, ma non tanto, che ha da essere dominato da una condotta ritmica ostinata, se non allucinata, per dar agio a quel diffuso virtuosismo, in cui Gennaro Cardaropoli ha calcato in grassetto la connotazione popolaresca e coloristica, in una pagina che altresì vive della sensibilità dell’interprete, data la fluente cantabilità delle idee melodiche, costantemente alternate ai tecnicismi più ardui e spettacolari, non sempre risultati del tutto trasparenti. Ovazioni per il solista e bis con L’introduzione e Variazioni in Sol maggiore per violino solo sul tema “Nel cor più non mi sento” da “La Molinara” di Giovanni Paisiello è un bizzarro capriccio di bravura che attraverso scale cromatiche, trilli, balzati e agilità varie ci conduce alla tonalità di sol maggiore, nella quale viene esposto il tema dell’aria con le sette variazioni.
Seconda parte dedicata alla prima sinfonia in Do minore op.68 di Johannes Brahms, l’altra opera inserita in programma da far tremare i polsi alle grandi orchestre, figurarsi a degli allievi ancora in formazione, ha, purtroppo, confermato che la scelta ha veramente peccato di presunzione: “Da un grande potere derivano grandi responsabilità” è questo un adagio reso popolare da Spiderman e per tutti il Maestro, se riconosciuto tale, è padre e, quindi, supereroe. Sicuramente una esecuzione da dimenticare, per la profondità e lo spessore orchestrale che non sono mai appartenuti ad questo Brahms veramente speciale, il primo suo esercizio sinfonico che, a nostro parere, deve contemplare una importante formazione cameristica. E’ questo un Brahms che prevede la finezza solistica delle prime parti con il senso collettivo dell’insieme, con un direttore il quale, in particolare difronte ad un’orchestra di ragazzi, avrebbe dovuto infondere vitalità interpretativa scegliendo un taglio che potremmo definire neoclassico, in modo da attribuire nitore assoluto alle linee melodiche e incisività graffiante alla ritmica, per continuare a “far lezione” ai giovani dal podio. Purtroppo, ad ognuno il proprio Brahms. Ancora marasma tra i fiati, anche con decisi problemi d’intonazione, tra cui salviamo solo i due clarinetti, Iolanda Lucci e Aniello Sansone, i quali sono riusciti a scegliere il suono giusto per entrambe le partiture e, in particolare per Brahms, e mancanza ancora di quel flou, di quella sensibilità espressiva che quando è indispensabile come nel secondo e terzo movimento ha da sciogliersi in affettuose morbidezze e toni sfumati, sempre riconducibili di fondo ad un segno di vigorosa e virile sobrietà. Felicissima scoperta il konzertmeister alla testa dell’orchestra nella I sinfonia di Brahms. L’intima sostanza lirica della scrittura del compositore è emersa purissima, distillata e, perciò, tanto più intensa, dal violino di Pasquale Picone. Applausi per i ragazzi che hanno, comunque, sostenuto un cimento da Champions, l’importante sarebbe ora non abbandonare queste partiture e andare oltre la semplice lettura.