Successo atteso per Gilda Fiume nel suo teatro Verdi, nel ruolo del titolo, regina assoluta insieme alla sua Adalgisa Francesca Di Sauro, di un cast dismogneo in particolare riguardo gli interpetri maschili, il tenore turco Mert Süngü e Carlo Striuli Oroveso. Il direttore Michael Balke non ha trovato la giusta balance in buca, dove la vince il primo oboe Antonio Rufo e il suono dei celli guidati da Livia Rotondi, regia “magica” e visionaria per Sarah Schinasi
Teatro sold out e parterre de roy per la prima di Norma, da tutta la stampa specializzata, al soprano Donata D’Annunzio Lombardi, in veste di Maestra della Adalgisa, al direttore Francesco Ommassini, a sorpresa, per la sua Gilda, capolavoro belliniano che è tornato al teatro Verdi dopo otto anni, con la stessa interprete nel ruolo della sacerdotessa, una più che matura, per questo personaggio Gilda Fiume. Una Norma, quella voluta da Michael Balke con tutti i tagli aperti, per quasi tre ore di opera, che ha così offerto ad essa indirizzo nettamente belcantistico, grazie alle qualità del nostro soprano. La cantante è stata, infatti, in grado di sublimare il lirismo intrinseco della voce belliniana, grazie a una tecnica che le permette di esibire variazioni di agilità e puntature acute, che si sono finemente integrate con il luminoso timbro. L’ intero spettro vocale e coloristico è stato rivelato con cura e passione, evidenziando l’attenzione meticolosa e il coinvolgimento emotivo della cantante nella sua interpretazione. Poche opere, infatti come Norma sono capaci di creare uno spazio musicale che trascende la dimensione ordinaria e suggerisce un senso di eternità o di fuga temporale. E’ questa l’essenza della regia di Sara Schinasi, coadiuvata dallo scenografo e costumista Alfredo Troisi, anche per la regista un pronto ritorno sul palcoscenico salernitano dopo i successi di Pagliacci e l’Italiana in Algeri, che ha schizzato una sacerdotessa “magica”, tra simboli della scienza occulta, liquidi blu e una Avada Kedavra, una Maledizione senza Perdono, per suonare il sacro bronzo, con emissioni di luce ed energia, perfettamente concordata con il suonatore di tam, il percussionista Simone Parisi. Scena semplice con proiezioni dei fregi delle ville pompeiane e uno strano bugnato, abbastanza discutibile, usato anche per gli interni su cui venivano proiettate figure e fregi dei celebrati scavi campani. La sorpresa della serata è risultato il giovanissimo mezzosoprano Francesca Di Sauro, pregnante interprete del ruolo di Adalgisa, artista già di coscienza, preparazione , intelligenza, autodisciplina, che l’hanno portata ad impreziosire, in particolare i pezzi d’assieme, sia per il suo impegno nel rendere il personaggio, sia per la musicalità, la bellezza del timbro insieme alla freschezza della sua luminosa voce. Il risultato sono stati duetti spettacolari in cui le voci femminili si sono unite in modo perfetto. Dolenti note, invece, per le voci maschili principali, a cominciare dal tenore turco Mert Süngü, il quale è venuto a sostituire nel ruolo di Pollione, l’infortunato Vincenzo Costanzo. Voce con pur qualche numero, ma mal controllata, la “perla nera”, con problemi nel portamento, acuti forzati, imprecisi e vocali spalmate. Il suo Pollione, il quale non ha fatto intravvedere e immaginare i tratti essenziali che abbisognano al ruolo, arrivando al finale di un’opera veramente impegnativa per tutti, decisamente stanco, ha svolto il compito rivelando un tono stentoreo e con qualche pecca d’intonazione. A Carlo Striuli diamo la palma per il physique du rôle di Oroveso, che trae auspici dal suo filtro al blu curaçao e angostura: lo ricordiamo già nel 2011 nel ruolo, sono trascorsi ben quindici anni e i suoni visionari, oramai, hanno messo, immaginiamo, le altre voci in difficoltà negli assieme. A completare il cast, splendida prova di Miriam Tufano, che ha dato voce a Clotilde e il dignitoso Flavio di Francesco Pittari. Il direttore Michael Balke, scuola tedesca, gesto contenutissimo, a volte invisibile, non ha trovato la giusta balance tra le sezioni, di cui possiamo salvare, a pieno titolo gli archi gravi, a cominciare dal bel suono dei soli sei celli guidati da Livia Rotondi, che crediamo abbiano preso iniziativa da soli, così come i legni, rotti all’arte per questo titolo, in cui si sono ascoltati fini preziosismi di suono, a cominciare dal primo oboe Antonio Rufo, in trio con Antonio Senatore al flauto, assoluto protagonista dell’invocazione alla luna, con alla sua destra l’ottavino di Vincenzo Scannapieco e il clarinetto di Luigi Pettrone, che ha inteso concedersi un riuscitissimo pianissimo, dobbiamo dire di novecentesca memoria, al pari dei filati con “forchetta” di Norma. Qualche incomprensione da parte del direttore anche con i cantanti, in particolare al momento delle agilità, con rallentamenti evidenti. Intenzioni veramente diverse tra gli ottoni che, stavolta non hanno convinto, e i corni puliti, ma presenti sull’orchestra come non mai. Bellini, purtroppo, non ha trovato in Balke chi sappia attuare in coerenza estetica ogni sua più riposta invenzione. Orchestra dismogenea, quindi, ma un plauso va alla banda di palcoscenico e alle percussioni, sempre più che sacrificate nei palchetti laterali a combattere con sonorità e spazialità per l’intera opera. Francesco Aliberti direttore del coro e preparatore della bandina è riuscito a trovare soluzioni per tutti, in particolare nel raffinatissimo ultimo intervento in crescendo, che condanna Norma al rogo, tradito, però, nel “Norma viene” dalla mediocre comunicazione buca palcoscenico. Bellini, purtroppo, non ha trovato in lui chi sappia attuare in coerenza estetica ogni sua più riposta invenzione. Lancio di rose su tutti i protagonisti e ovazioni per Gilda Fiume e Francesca Di Sauro. Si replica stasera alle 18., un