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Uomo e Galantuomo: umano, troppo umano

  • Febbraio 20, 2023
  • Olga Chieffi
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Vince ma non convince l’allestimento della commedia di Eduardo da parte di Armando Pugliese, con Geppy Gleijeses nel ruolo del protagonista surclassato dai caratteristi, sul palcoscenico del Teatro Verdi.

di OLGA CHIEFFI

Dimenticate i comici da cabaret, i comici «surreali», i «nuovi comici», tutti quelli che vanno di moda e riempiono i teatri come effetto secondario del gradimento televisivo; qui, con Eduardo e con la Compagnia di Gleijeses, al Teatro Verdi di Salerno, il capocomico si è voluto porre sulle precise tracce dell’autore. È, “Uomo e Galantuomo”, una commedia ancora legata agli schemi, appunto, del teatro scarpettiano, in parte farsesco-popolari e in parte mutuati dal vaudeville francese; ma è già attraversata da vividi lampi di quel realismo, di quella scrupolosa verità ambientale e caratteriale, di quella comicità “umana” su cui Eduardo costruirà a poco a poco il suo teatro. Insomma, un’opera aurorale, in parte acerba; ma proprio in questo consiste la sua specifica, intramontabile felicità. Geppy Gleijeses ha inteso ricalcare pari pari, finanche nella camminata con i piedi bendati, in qualche accento, nei lamenti per le scottature, il Gennaro De Sia interpretato da Eduardo, capo comico di una miserabile compagnia di guitti che viene coinvolto senza alcuna colpa nel piccolo scandalo da pochade di un adulterio per ripicca al cui centro c’è Alberto, interpretato dal figlio Lorenzo, il giovanotto benestante e nullafacente che finanzia la tournée degli attori. Ma la trama conta fino un certo punto: gli squarci di comicità vera, di comicità umana, che si aprono fra una convulsione narrativa e l’altra: basti pensare alla formidabile scena delle prove, con i battibecchi fra Gennaro e il suggeritore Attilio (un eccellente Gino Curcione) e la geniale gag della porta; o al non meno geniale tormentone della «boatta», il pericoloso recipiente che la compagnia si porta dietro ovunque per cucinare «sul campo» i magri pasti.
Testo movimentato, macchiettistico, legato ai tipi e alle situazioni della Commedia dell’arte, nonché al teatro boulevardier, in cui, tuttavia, se ci si sofferma un istante, si vedono emergere aspetti e significati carichi di tanta umanità: quegli equivoci, quegli stratagemmi, quelle pazzie simulate, atte a risolvere o a trovare comunque degli “escamotages” a personali problemi, fanno scaturire la perenne contraddizione dell’uomo, che ha come prima preoccupazione se stesso e la sua immagine di fronte al mondo, e quella del galantuomo che é legato nei comportamenti da una sua personale etica, viene dal regista Armando Pugliese, asservito a una lettura fedelissima al testo e all’agogica eduardiana. La storia in questione, è noto, narra di un gruppo di guitti ingaggiati per una serie di recite estive. I poveracci si arrabattano nella vita e in palcoscenico, spernacchiati fin dal debutto da un pubblico di villeggianti disattenti ed esigenti. La prima attrice aspetta un figlio del capocomico, Gennaro, e attorno a loro si muove un drappello di personaggi coloriti e balordi, dalla comprimaria lacera e parolacciaia, una convincente Antonella Cioli, ad Alberto De Stefano, Lorenzo Gleijeses, giovane benestante cui non dispiace il legame con una signorina misteriosa, Bice, la quale, dopo avergli rivelato d’essere anch’ella incinta, scompare misteriosamente.
Una recitazione, quella di Lorenzo Gleijeses, che si scuote in un singolare cambiamento durante la simulata pazzia negli strampalati discorsi al cospetto del marito, che ha fatto intervenire la forza pubblica. Parte difficile, quindi, piena di colpi di scena, che Lorenzo riesce a superare dignitosamente. C’è un nobilotto cornuto, ci sono il delegato di polizia, il piantone, il fratello collerico della primadonna col pancione…  Gennaro, in particolare, che si ustiona i piedi con l’acqua bollente di una pentola destinata ai maccheroni, esibisce e muove le estremità bendate, nella seconda parte della rappresentazione, alla maniera dello scarputo Charlot. Armando Pugliese gli presta disinvoltura, una piacevolezza disincantata eppure naif che toglie dal regionalismo stretto, rendendo universale la figura dell’infingardo partenopeo. Cercano l’estensione, l’allargamento di orizzonte, gli altri interpreti, che pure, con molta forza interpretativa, nulla tolgono all’eduardismo schietto della commedia. Da Irene Grasso, Viola, al Capocomico, Geppy Gleijeses, Gennaro De Sia, dall’eccellenza di Ernesto Mahieux, don Carlo Tolentano, il cattivo della commedia, che sa di essere “cornuto”, ruggente di desiderio, pur di salvare la sua reputazione di fronte al mondo, di sotterrare in un manicomio il povero De Stefano: l’impostazione della voce, la sua recitazione misurata e superba, la sua magistrale caratterizzazione del personaggio si sono ben esplicate anche nella pazzia simulata del terzo atto; a Gregorio Maria De Paola (il fratello di Viola), il camerata per eccellenza, sino al Cavalier Lampetti di Ciro Capano, il quale ha portato sulla scena un prototipo di delegato di polizia veramente simpatico. La sua massiccia persona, la voce tonante, il modo con il quale tra momenti di certosina pazienza e scatti d’ira ha affrontato le situazioni più imbrogliate, il suo ironico approccio con i tre pazzi, o presunti tali, il suo urlo per sedare le grida dei guitti vocianti, il fatto di quella sete insoddisfatta per tre comiche “gags” nel suo ufficio, ne hanno fatto uno degli attori, che hanno convinto maggiormente. E ancora, Bice, moglie del conte Tolentano, Roberta Lucca, esile elegantissima figura di moglie tradita che per “Picca, ripicca e puntiglio” tradisce il marito. Solo il marito? Il suo charme studiato e quella molle dizione le conferiscono l’aria, più che di vittima, di una viziata gattina, portata a fare le fusa più che a graffiare, soprattutto di fronte agli uomini (vedi il gustosissimo colloquio con il delegato ).
Non alza mai la voce, quasi che lo sconquasso provocato dal sua comportamento la sfiori soltanto nei momenti, quando, per vendicarsi del marito, passa impunemente sopra la vita del suo amante, riscattandosi solo in extremis con la presentazione delle lettere “equivoche” del consorte al delegato, e non ultimi i ruoli minori di Matilde Bozzi, ancora la Cioli, Roberta Lucca che interpreta Ninetta, Brunella de Feudis che dà voce ad Assunta e Salvatore Felaco, l’agente di Polizia Di Gennaro a completare un cast che lavora per la causa, in un amalgama degno di nota.
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