Per il capolavoro verdiano che è tornato al massimo salernitano, Giandomenico Vaccari ha trasposto il titolo nella Parigi occupata del 1941. La vince su tutti la Gilda di Jessica Pratt, che ha offerto emozione ad ogni nota, Roman Burdenko, nel ruolo del titolo, non ha ancora la varietà d’affetti ed effetti nella voce. Daniel Oren pensa un’esecuzione alla Tullio Serafin, cercando un’eleganza che bilanci la grevità in palcoscenico. Legni senza più identità, dopo oltre vent’anni, buon debutto di Salvatore Quaranta quale konzertmeister
Sold out per le due repliche del Rigoletto, con il Maestrissimo Daniel Oren disceso da Trieste per poi salire ad Udine dopo la prima e tornare nel suo teatro Verdi a Salerno per la seconda rappresentazione del capolavoro verdiano, per questo titolo con cui ha unito l’Italia, in questa coda di primavera. Due sole prove per imprimere la propria idea di Rigoletto, per Oren, una rilettura non lontana da quella celebre incisa da Tullio Serafin, con Maria Callas, Tito Gobbi e Giuseppe De Stefano. Tentativo di ricerca dell’eleganza in buca, con pianissimi ai limiti dell’audibilità e per i legni difficoltà nel controllo del suono, degli attacchi e dell’intonazione, che abbiamo rilevato in particolare nel primo oboe, Paolo Brunello, nel celebre solo della confessione di Gilda, ancora un jump in, quello del già secondo flauto del teatro San Carlo, Giampiero Pannone, sorpresa di innesti discutibili, in una sezione, quella degli “strumentini”, rappresentante per intero la tradizione musicale salernitana, che è sempre stato il fiore all’occhiello della Filarmonica Giuseppe Verdi. Eliminazione dei piatti, dei quali sì non abbiamo nota in partitura, così come nella Forza del destino, ma presenti in esecuzioni, quali quelle di Giuseppe Sinopoli, dello stesso Serafin, di Muti, Karajan, e se dobbiamo far filologia, allora disdicevole è stato arrendersi alla consuetudine di una Gilda, una eccezionale Jessica Pratt, di coloratura per conservare sovracuti, che ha eseguito perfettamente, aggiunti da non si sa chi, mentre il parametro per definire la voce del Duca di Mantova, qui affidato ad un “chiarissimo” Chacòn-Cruz, è stato lo squillo del si, non prescritto da Verdi, che conclude “La donna è mobile”, interpretata come tronfia celebrazione di una conquista mercenaria, piuttosto che come routinario riaffiorare di motivi sedimentati e caratteriali, per non parlare del ruolo del titolo, Rigoletto in cui con Roman Burdenko si è sacrificato alla potenza dell’emissione, all’urlo di dolore, di rabbia, di vendetta, di esultanza, di maledizione, di terrore le finezze dell’ironia, a partire da quel “La rà, la rà”, lo scavo della parola sussurrata, la tenerezza della mezzavoce, il pudore del sottovoce, volto al segreto interrogarsi, al dubbio, con colori che richiedono suoni smorzati e sussurrati, il ricorso alla mezza voce, perfino al falsettone, per conseguire i diminuendo e i pianissimo apposti anche in tessiture proibitive. Non rispettarli significa precludere al canto la possibilità di piegarsi alle infinite sfumature del personaggio verdiano, per tacere del dovere dell’interprete e su questo palcoscenico abbiamo avuto quali Rigoletto Bruson e Nucci, di rispettare tante finissime indicazioni. Tagli con l’accetta, da parte del Maestro e un plauso alla banda che ha eseguito le danze, con cui principia l’opera, dopo che il regista, Giandomenico Vaccari, in un salone fatto d’ombre claustrofobico, disegnato da Alfredo Troisi, ha rivelato la Parigi occupata dai nazisti e l’accenno al Girone delle Manie, da Salò e le 120 giornate di Sodoma, di Pier Paolo Pasolini, dove i Signori esercitano una serie di sevizie sui corpi di donne, trattate come cagne. Per le danze, col famoso perigordino, Pina Testa si è ispirata in primis a movimenti di tango, quindi a prese e movimenti di danza contemporanea. Finale a sorpresa con Maddalena, ruolo affidato ad un mezzosoprano di rara intensità, quale è stata Alisa Kolosova, ispirata dal film di Tinto Brass, Salon Kitty, che muore per mano, in una taverna sul lungo Senna, dei sicari del Duca di Mantova, il quale vede il delitto di Sparafucile (un Carlo Striuli, al solito ombra di un cast comunque di buon livello), e decide di evitare testimoni, del suo ennesimo amorazzo. A completare il cast la Giovanna di Miriam Tufano e ancora il Marullo di Italo Proferisce, il querulo Matteo Borsa di Vincenzo Peroni, e il bell’esordio di Michele Perrella che è stato il conte di Ceprano, con Miriam Artiaco la contessa, la quale ha dato voce anche al paggio e un usciere Antonio De Rosa. Coro maschile diretto da Francesco Aliberti che ha sempre da considerare il materiale umano messo a suo disposizione, che ha dignitosamente portato a termine un compito non semplice e un Oren che ha ricercato l’estremo pianissimo, a volte fino a far scomparire l’orchestra, a servizio dei cantanti, risvegliandola all’improvviso e spingendo il piede sull’acceleratore, in particolare in “Si vendetta, tremenda vendetta”, bissata unitamente al “La Donna è mobile” del Duca. Di finissima fattura è stato il quartetto “Bella figlia dell’amore”, che è valso l’intera opera. Applausi e rose per tutti. A rivederci ad ottobre con la Carmen di Bizet e lì i piatti non potranno proprio mancare.