Reunion tra amici sul palcoscenico del Teatro Verdi nel segno dei tanti amici e talenti di Gegè Telesforo. Su tutti l’eleganza di Fabrizio Bosso, il gusto musicale dei gemelli Cutello e la lezione di Roberto Gatto
di OLGA CHIEFFI
“La musica afferra il presente, lo ripartisce e ci costruisce un ponte che conduce verso il tempo della vita. Colui che ascolta e colui che canta vi ci trova un amalgama perduto di passato, presente e futuro. Su questo ponte, finchè la musica persiste, si andrà avanti e indietro.”
E’ quanto abbiamo vissuto al teatro Verdi durante la serata dedicata al Premio Salerno Jazz, sicuramente non un contest, per voti e titoli, ma una felice reunion, ospite del palcoscenico del Teatro Verdi di Salerno, e che ha salutato dodici musicisti insigniti di questo riconoscimento, dieci italiani e due ospiti stranieri, tutti scoperti e amici di Gegè Telesforo, nonchè vicinissimi a Stefano Giuliano e alla big band. I nomi sono quelli che spesso sono ospiti delle massime rassegne internazionali, dal padrone di casa, il bassista Dario Deidda, qui in trio con Fabio Zeppetella e Aaron Goldberg, a Fabrizio Bosso, di stanza spesso a Cava de’ Tirreni, a Stefano Di Battista che incontriamo sempre al Ravello Festival, come anche Rita Marcotulli, la Signora del Jazz italiano e il suo batterista d’elezione Roberto Gatto. Con loro, la felicissima scoperta dei gemelli siciliani Matteo e Giovanni Cutello, il talento cavese, il sassofonista Gabriel Marciano, e ancora, il crooner Anthony Strong e la vocalist Serena Brancale, già ospiti della band come il trombone classico di Mauro Ottolini. Rappresentanti dell’amministrazione comunale in prima fila a cominciare dal Sindaco Vincenzo Napoli, il quale si è ritrovato ad aprire le danze premiando l’elegantissima tromba di Fabrizio Bosso, autorevole e ispirato interprete del suo Dizzy’s Blues, un chiaro omaggio a Gillespie, con uno strumento difficile e relativamente limitato, per estensione e tessitura, al quale il nostro trombettista riesce ad applicare un virtuosismo apparentemente illimitato a una serie di innovazioni linguistiche, strutturali, attraverso la sua maestria nella scomposizione ritmicache si associa in modo inedito con una controllatissima duttilità timbrico-melodica, tanto da creare nei propri assoli un flusso musicale sempre sorprendente quanto mirabilmente coerente, di solidissima architettura.
L’ “aria di sortita”, ci concederete questa altra licenza “lirica”, ma eravamo al Verdi, è stata di Gegè Telesforo, quel “So Cool”, un brano datato 2009 con cui ha preso il via il “gioco” tra solisti e la big band, diretta da Stefano Giuliano, con un brillantissimo piano conductor quale si è rivelato Marco De Gennaro. Se Lester Young, con quella arguzia immaginosa e un po’ obliqua che faceva di lui il più memorabile coniatore di titoli, pseudonimi e nomignoli nel mondo del jazz, chiamava Ella Fitzgerald “Lady Time”, lasciateci nominare “Mr.Time”, Gegè Telesforo, il quale ha poi duettato prendendo l’abbrivio dai fonemi pugliesi, con una sua conterranea Serena Brancale, voce fascinosa la sua, la quale ha regalato una sua song “Il Gusto Delle Cose”, esprimendo tutto il “nero” della canzone e della voce italiana e ricevendo il premio dal padrone di casa Antonio Marzullo. Jazz è contaminazione poiché Roberto Gatto, ovvero colui che ha costretto a buttare le bacchette proprio ad un Gegè Telesforo, aspirante batterista, si è presentato con la “West Side Story Suite”, la versione di Buddy Rich, di West side Story di Leonard Bernstein, primo mentore di Daniel Oren, offrendo, così, anche un assaggio di storia del jazz, ed evocando il meglio della formidabile tecnica della mano sinistra, unita alla velocità, musicalità e ampia gamma dinamica della mano destra, propri di Rich. Amici for ever di Telesforo, Dario Deidda, Fabio Zeppetella e Aaron Goldberg, interpetri di “Across The City” e “Allegro”, brani dello stesso Zeppetella, che nascono però per quartetto, e ne hanno risentito nel dialogo con la band, nonostante il grande senso dello swing e propensione melodica quali chiavi utilizzate dai musicisti per dare vita a queste pagine, in cui il virtuosismo si è posto al servizio della cantabilità e ha lasciato spazio ad un dialogo fatto di ascolto e rispetto.
Appare, poi, la “Signora del jazz” Rita Marcotulli, a Salerno lo scorso autunno con il progetto Truffaut, la quale ha scelto di presentarsi in pubblico con la sua “In Between”, un brano in cui la ricordiamo con Javier Girotto al soprano, a-solo che è passato ad Antonio Giordano. “Rita” è stata l’originale dedica a Rita Levi Montalcini di Stefano Di Battista, una splendida ballade, che si è trasformata in gioco e sfida con gli orchestrali, prima di ricevere il trofeo da Dario Loffredo, mentre Anthony Strong ha interpretato una sua versione ri-arrangiata di “Too Darn Hot” di Cole Porter. Stelle giovani e brillantissime Matteo e Giovanni Cutello, tromba e sassofono, da un paesino della Sicilia, ove hanno iniziato con la banda e qui hanno proposto un classico di Charles Mingus “Nostalgia In Time Square” non lontani dal gusto di Wynton e Bradford Marsalis, i quali hanno avuto il premio proprio da Giovanni Tommaso, padrino dell’intera manifestazione, curatore delle clinics di Umbria Jazz, da dove i gemelli sono partiti. Ancora Gabriel Marciano, da Cava de’ Tirreni, con “Firm Roots” di Cedar Walton, e il trombone di Mauro Ottolini che ha trasformato la Salerno Jazz Orchestra in una big band dal suono classico ed equilibrato con le note di “New Orleans”, dove tutto ha avuto inizio.
Finale in blues, quel giro su cui tutti hanno improvvisato e in cui noi abbiamo voluto immaginare C Jam Blues di Ellington, poiché i suoni ci attirano verso ciò che sopravvive e persiste come risorsa culturale e storica, capace di resistere, interrogare e scardinare la presunta unità del presente.