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La Russia musicale di Steinberg e Lugansky

  • Gennaio 29, 2024
  • Alfonso Mauro
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Su tutto la beltà incisiva di una pressoché perfetta esecuzione. La vincono il pianista nel Rach3 e il direttore in Shostakovich: la palma a xilofono, tuba in Sib  e violino del finale del I moderato. Deliziosamente snocciolato l’allegretto II, impeccabili flauto e pizzicato degli archi.

di ALFONSO  MAURO

Uno spettro s’aggira per questo articolo! Quasi metagiornalistico, se si ponderi la travagliata concezione della Quinta di Shostakovich, con tanto di apologetico scritto giustificativo, quale cinis super caput a seguito dell’anonima (quantunque si sia spesso congetturato di Stalin in persona) stroncatura della Lady Macbeth del distretto Mcensk precipitata giù dalle colonne della Pravda (“caos anziché musica”); o se si tenga altrettanto debito conto della “replica per l’esportazione” che il Terzo per pianoforte e orchestra di Rachmaninov riassembla sul più fortunato Secondo giusto a ridosso della Rivoluzione d’ottobre che costrinse all’ “esportazione” definitiva del suo genio pianistico più che compositivo, con esilio e confische di beni. In somma la Storia, così come colta non senza una certa arguzia dalle note di sala (5€ che però lasciano più appetito di quanto ne satollino) e come non sovente imbandita agli uditorî — perché non pensare a più lezioni-concerto? La sbigliettazione ulteriore non ci pare un crimine. Ma servirebbero più direttori capaci di dialogare col pubblico.
La Storia che giganteggia sulla gremitissima conca del Massimo partenopeo per il concerto del 26 gennaio è quella russa: i predetti brani-capolavoro dei due slavi torreggianti, e il prodigioso Nikolay Lugansky russo egli stesso. A irreggimentare l’orchestra del San Carlo, ospite l’acclamato Pinchas Steinberg alla cui visione pulita, pedissequa se si preferisca, non è parso riuscir di sdrucire un sound da sobbalzarci — quel roboante (per alcuni bombastico) che ha invece sorpresa la Turandot di Dan Ettinger d’un mese fa. D’altro canto l’enorme difficoltà esecutiva d’entrambi i brani e la nervosa poliedricità dell’organico del secondo pongono innanzi un’erta non di leggieri a scollinarsi per le ospitate (per prestigiose che siano) che non abbiano a lungo tenuto il polso dell’orchestra. La pagina di Sergej si è infatti stiracchiata un po’ sacrificata da iniziali disperati a-tempo, alcune incertezze sempreverdi degli ottoni, e una tastiera che nonostante gli illustri ed illustrati polpastrelli è rischiata soccombere sonicamente all’orchestra. Va però riconosciuto un plauso al flauto ondeggiante sugli arpeggi del piano dopo la lunga cadenza in fin di primo movimento — questa altrettanto d’impatto massivo, grazie a Lugansky. Bene tutti nell’Intermezzo Adagio, d’un lunare cui l’estensione lirica e appassionata dà commovente lena. Si fluisce più ordinatamente nonostante i corni. La cifra virtuosistica del finale Alla breve meglio si sarebbe giovata d’una estrazione sonora più coraggiosa di Steinberg, ma a Lugansky riesce di convincere tutti nonostante, e con la stellata maestria cui il pubblico impone sei curtain calls e due bis. La narrazione concertistica è in fondo stata convincente, e gli atteggiamenti hollywoodiani di R. (ovviamente è più corretto dire atteggiamenti rachmaninoviani di H.) muovono copioso l’affetto di pubblico. E l’impostazione tardo-romantica meglio della nevrotica frenesia shostakovichiana ritrae la depressione di cui sofferse l’autore esule — sempre godibilmente impervia la scia del virtuosismo trascendentale.
L’effetto, invece è mosso sul pubblico dall’attesissimo Shostakovich. Quello coinvolto, combattuto, tra avanguardismi e dettami estetici di regime nelle quadrate pieghe dei quali lasciar pur stillare il dolceamaro commento quasi alla giullare di corte. La non semplice coesistenza artistico-politica del già enfant prodige ora persona non grata è infatti confitta tra l’encausto del sarcasmo e la retorica da prima pagina staliniana, forse meglio reminiscente della plebe del Godunov costretta ad osannare lo zar macbethiano. Su tutto la beltà incisiva di una pressoché perfetta esecuzione. Più disciplinati tutti — la palma a xilofono, tuba in Sib, e il violino del finale del I moderato. Deliziosamente snocciolato l’allegretto II, valzer di sornionissima ispirazione mahleriana; impeccabili flauto e pizzicato degli archi, sui quali ancora ergesi il primo violino. Vieppiù ammaliante il surreale Largo, inquietato su ottime arpa e celesta, e di cui il timido (intimidito?) autore ebbe a dire, in intervista a La Sera di Mosca, fosse “piuttosto riuscito”! Per scelta di Steinberg, l’aere malfatato di III non prorompe immediatamente nel turgore clamoroso e intenzionalmente pomposo di un IV Allegro non troppo comunque lievemente al di sotto delle melomani aspettative di chi abbia a grato il dimenarsi con la musica sugli sgabelli. Sempre per il giornalismo già gravato dallo spettro della Siberia, Dmitri chiosò del finale che esso dà risposta ottimistica ai precedenti movimenti tragici; ma, dopo essere tornati a Re maggiore dopo una sezione di teso parossismo, la scelta di chiudere strillando in Sib anziché assicurare un lieto fine da Dottrina Ždanov annuvola non poca inquietudine. Stalin e il suo arbitro della linea culturale di Partito non erano da farsi menare la mosca al naso, ma pare che tanto bastò loro. In una interessante lezione-concerto-documentario di Michael Tilson Thomas disponibile su YouTube (“Keeping score”), il direttore statunitense e la San Francisco Symphony riscrivono il finale in maggiore per vedere ironicamente l’allineato, bacchettone “effetto che fa” (che avrebbe fatto).
Onde non sortir di metafora prelusiva, diremo in somma lo spettro di cui sopra essere forse nelle aspettative alte, non esorcizzate a pieno ma neanche tradite, di una soirée tutta biografica, in cui la musica pura ceda consapevolmente il passo al vissuto dei compositori nel e del ‘900; e se l’ovazione finale gragnola più sul sempre efficace (pseudo-)trionfalismo di uno Shostakovich cinematografico, nondimeno il successo in crescendo è a portata di mano (se non di bacchetta) e di note di sala cui il dato didascalico non sfugga, denso degli appassionati commenti prima, durante, e dopo il concerto.

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Alfonso Mauro

Alfonso Mauro (1989) ha studiato Storia e Filosofia all'Università degli Studi di Napoli Federico II. Lavora come interprete e traduttore nel turismo, presso l'azienda vitivinicola Le Vigne di Raito; ed è condirettore artistico della rassegna culturale vietrese "La Congrega Letteraria". Le Belle Lettere, e la Musica classica e lirica sono la sua passione.

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