Pubblico interdetto al Teatro delle Arti per l’allestimento della scarpettiana “Miseria e Nobiltà” firmata da Lello Arena e Luciano Melchionna dispensatrice della intensità tragica della stoltezza.
Evochiamo il titolo di un celebre saggio di Pierre Joseph Proudhon, per riflettere sulla rilettura di “Miseria e Nobiltà” di Eduardo Scarpetta, firmata da Lello Arena e Luciano Melchionna, una delle più interessanti produzioni dell’Ente Teatro Cronaca VesuvioTeatro, che ha inaugurato in un Teatro delle Arti sold-out, il cartellone di prosa, firmato da Claudio Tortora, del secondo spazio artistico cittadino. Il regista e Lello Arena, infatti, nel sermoncino finale eliminano il termine nobiltà dal titolo, chiudendo con “Miseria e Miseria” per il degrado totale, economico, morale ed affettivo, di cui lo spettatore è stato testimone. Balena il monito finale del saggio di Proudhon, poi stroncato da Karl Marx, ne’ “La Miseria della Filosofia”, in cui si afferma che la miseria era una cosa inevitabile e che moralismo a parte, ha senza dubbio un valore quasi profetico. Il benessere di cui il cittadino medio occidentale gode oggi è il frutto delle battaglie che i lavoratori fecero a cavaliere tra Ottocento e Novecento, anche per l’eliminazione dello sfruttamento minorile, il diritto allo studio, la parità di salario tra i sessi, diritti che oggi l’avidità capitalista mette sempre più in dubbio e che i governi asserviti al capitale erodono, giorno dopo giorno, riportandoci indietro di secoli nello sfruttamento e nell’oppressione. Il primo atto è ambientato in uno scantinato dove si aggirano due famiglie, Felice (Lello Arena), la seconda moglie Luisella (Maria Bolignano) e il figlio di lui Peppeniello (Veronica D’Elia) condividono con Pasquale (Andrea De Goyzueta), la moglie Concetta (Giorgia Trasselli) e la figlia Pupella (Serena Pisa).
L’ambiente è reso da impalcature di ferro, che creano spazi e passaggi attraverso i quali i personaggi si muovono da un punto all’altro come topi in una discarica: spazi ristretti e tanta voglia di evadere da una situazione buia e claustrofobica. Solo Don Felice Sciosciammocca, lo scrivano, che pone il suo bancariello dinanzi alla scuola, in attesa del ragazzo che possa chiedere un consiglio d’amore, una poesia, la traduzione di una versione dal latino, un motto, sembra avere la mente aperta: suo l’invito ad andare a teatro, ascoltare Mozart, leggere, magari, il lemma di un vocabolario, l’intemerata sul “fare”, un verbo che apre a tutto, anche alla “poesia” che proprio da quel poiein deriva, un mediatore di “classe” illuminato, essendo lui stesso un piccolo borghese, ugualmente emarginato ma portatore della intensità tragica della stoltezza. Una riscrittura che, tra le classiche battute, elimina la parola nobiltà dal titolo, poiché di nobili tra i personaggi non ce ne sono.
La casa di Gaetano Semmolone ha le sue fondamenta su quella di Don Felice, ovvero su quella topaia da cui lui stesso proviene e ne conserva intatto l’afrore, essendo un cafone ignorante arricchito. Lo stesso vale per Bebè il padre del marchesino Eugenio Favetti, don Ottavio, autentico rappresentante di un mondo smidollato e putrefatto, che in età matura corre dietro alle ballerine, importunando Gemma con la sua sciocca petulanza. Misero è anche per il figlio Eugenio, che evita attentamente di stringere la mano ai familiari di Don Felice e Pasquale, temendo di contaminarsi e mischiarsi con gli infimi, pur chiedendo loro un favore. Tutti ascendono dal sottoscala attraverso una botola, e a guardare dentro in quel pozzo senza fondo, in quell’abisso e in quel vuoto, si vede, comunque, qualcosa.
Noi continuiamo a vedervi Luisella, la Astrifiammante della situazione (ne porta un simile diadema nel I atto), la Carabosse che, unica esclusa dalla grande rappresentazione in casa Semmolone, ne svelerà il senso e il trucco, l’unica perdente e sconfitta: infatti, Bettina perdona il suo Felice, ritrovando Peppiniello, Pupella impalmerà Luigino e le due famiglie saranno ospiti di Don Gaetano per gli anni a venire. Luce ed ombra alla fine si compensano, due nuove coppie si sono formate, ma il vero tempio resta soltanto la vita. Applausi per tutti i generosissimi attori, per il loro teatro, che sa guardare indietro, a quei fantasmi che ringrazia e supera.