Questa sera, all’Opera di Tirana, debutta il basso salernitano Nicola Ciancio, diretto da Adriano Martinolli D’Arcy, partitura dal solido impianto architettonico, a suo modo unitaria, pur nell’oggettiva discontinuità linguistica tra religiosità e opera
di OLGA CHIEFFI
3 agosto 1829: all’Opéra di Parigi va in scena Guillaume Tell di Gioachino Rossini. Nessuno può immaginare che l’operista più famoso e acclamato del momento, a trentasette anni e mezzo, abbia chiuso per sempre con il teatro musicale. Neanche Rossini, che nel febbraio 1831 va a Madrid per il Carnevale: lo porta con sé, su una carrozza provvista di tutti i comforts, il marchese Alejandro Maria Aguado, un banchiere spagnolo ricchissimo. Il gran Maestro delle accoglienze è un ecclesiastico il “Comisario general de Cruzada” Manuel Fernandez Varela, che gli chiede uno Stabat Mater. Rossini accetta, e comincia a mettere in musica la prima delle venti terzine del testo di Jacopone da Todi. Provato e afflitto da una significativa forma di esaurimento, Rossini senza troppi scrupoli affidò all’amico e antico compagno di studi bolognesi Giovanni Tadolini il completamento del lavoro che, constando di soli sei numeri di mano del pesarese e altrettanti approntati dal ‘collega’, venne fatto eseguire dal dedicatario una volta soltanto, in forma privata, come da accordi, il Venerdì Santo del 1833, in assenza dell’autore. Scomparso il prelato, quattro anni dopo, il manoscritto passò agli eredi; venduto giunse nella mani dello spregiudicato editore Aulagnier. Allarmato per il preannunciarsi di una possibile edizione a suo dire abusiva, se non addirittura pirata, nel 1841 Rossini s’indusse a riprendere in mano il lavoro. Scrisse ex novo quattro brani in sostituzione dei preesistenti a firma del Tadolini: si tratta dei numeri 2, 3, 4 e 10.
La prima esecuzione di tale nuova e definitiva versione ebbe luogo il 7 gennaio di quello stesso 1842, al Théâtre Italien di Parigi, subito suscitando entusiasmo grazie anche alla compagnia di grido posta in atto. Sta di fatto che lo Stabat Mater, accusato di scarso afflato religioso (come avverrà poi, anche con la Petite Messe solennelle o, più modernamente, col superlativo Requiem di Fauré), venne replicato già in quel primo anno addirittura in ventinove città europee. A dirigerlo con vivo successo presso l’Aula Magna dell’Archiginnasio di Bologna, il 13 marzo, vi era Donizetti. Questa sera e domani alle ore 20, all’Opera di Tirana per scelta del direttore artistico Jacopo Sipari di Pescasseroli e del sovrintendente Abigeila Voshtina, sarà proprio lo Stabat Mater di Gioachino Rossini nella versione con coro e orchestra, ad essere diretto da Adriano Martinolli D’Arcy. Il quartetto dei solisti saluterà quale basso il salernitano Nicola Ciancio, la famosa aria Pro peccatis e in particolare per il più intimo e raccolto recitativo Eia mater. Il nostro basso, formatosi presso il conservatorio Martucci e cantante in carriera, avrà quali compagni di palcoscenico il soprano Renisa Laçka, il mezzosoprano Vikena Kamenica e quale tenore Matias Xheli, mentre il coro sarà preparato da Dritan Lumshi e in orchestra saranno ospiti per il tirocinio, alcuni elementi del Conservatorio “Umberto Giordano” di Foggia. Nonostante sia stato composto in anni di crisi creativa, lo Stabat Mater è partitura dal solido impianto architettonico, a suo modo unitaria, pur nell’oggettiva discontinuità linguistica: una serie di numeri chiusi, quasi il contraltare di una partitura operistica; anche il trattamento delle voci è di stampo analogo. Pur tuttavia non mancano i passi ‘a cappella’ e alcuni tratti in stile ‘osservato’ volti a caratterizzare, secondo le convenzioni dell’epoca, un brano sacro. Dieci complessivamente le sezioni in cui si articola la composizione che, strumentata con sagace mano coloristica per flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe, tromboni, timpani e archi, vede alternarsi coro e solisti in maniera ragionevolmente equilibrata. In apertura una breve introduzione strumentale dai colori
scuri che, avviata da violoncelli e fagotti, subito sfocia in un lancinante fortissimo dall’enorme vis drammatica; poi ecco le voci corali a sillabare con compostezza un tema cinereo e mesto che pare avvolgersi su se stesso, aderendo magnificamente al testo. Inauditi apici dinamici, alternati a rarefatti pianissimi, fendono il tessuto sonoro con indicibile espressività, quasi vistose anticipazioni rispetto alla verdiana Messa di Requiem. Di grande impatto emotivo l’unisono sulle parole “dum pendebat filius”. Si possono inventariare poi anche certe riconoscibili assonanze con la schubertiana Incompiuta entro una pagina di innegabile intensità e pregnanza, volta a rendere l’accorato e dolente stupore di fronte al mistero della Passione e morte di Cristo, vissuto dal punto di vista soggettivo della Vergine: umanissima presenza dinanzi alla Croce Santa, quasi emblema dell’umanità intera. Poi ecco subito con il “Cujus animam” il vistoso viraggio verso il côté operistico, e dunque, in seconda posizione un’aria tripartita, sontuosa, vibrante e slanciatissima in la bemolle maggiore intrisa di teatralità fin dall’ incipit e affidata alla stentorea voce di un tenore che raggiunge vertici acuti: e qui, obiettivamente ‒ occorre ammetterlo ‒ il gap, o se si preferisce lo iato rispetto all’afflato spirituale dell’esordio è senza dubbio ragguardevole: «certi commenti divertiti di clarinetti e fagotti a parole come “quae moerebat et dolebat et tremebat” ‒ notava Baricco con fine arguzia ‒ poteva pensarli solo Rossini». Nel successivo duetto delle voci femminili in regime di Largo “Quis est homo” a prevalere è un lirismo ancora di stampo belcantistico che, sostenuto dalla regolarità del substrato strumentale (, pur tuttavia non difetta di toccanti accenti. Ammirevole il sapiente intreccio tra le due parti vocali. A concludere il passo una «fulminea cadenza cromatica» dell’intera compagine orchestrale. Poi ecco affacciarsi il timbro scuro del basso nel numero successivo, l’aria «Pro peccatis», dove s’impone un minaccioso emergere di timpano, entro un colore timbrico che, vagamente, richiama la Stimmung della Scozzese di Mendelssohn.
Uno dei culmini espressivi è senz’altro nell’attonito “Eja, Mater”, vera e propria preghiera di ammirevole concisione, col basso che va proclamando il testo in un suggestivo e quasi ‘metafisico’ recitativo, interpuntato dai flessuosi interventi del coro. Il quartetto delle voci soliste è protagonista nel debordante “Sancta Mater” irrimediabilmente minato da un esteriore effettismo, ancora una volta di smaccata natura operistica, ma armonicamente interessante; vi fa seguito il colore elegiaco di una delicata Cavatina “Fac ut portem” coi fiati a primeggiare in apertura. Per par condicio il pathos dell’imponente “Inflammatus” curiosamente in anticipo rispetto al Verdi della Forza del destino, con i concitati appelli del coro e i clangori degli ottoni. Vibranti emozioni si sprigionano nel mirifico “Quando corpus”, affidato al fascino delle voci ‘a cappella’: brano fitto di dolenti cromatismi che ha davvero del sublime, e basterebbe quest’unico passo per dissipare i dubbi di chi ritiene quest’opera parzialmente manchevole di “spiritualità”. Il clou nella coinvolgente fuga finale («In sempiterna») dall’incalzante contrappunto, dove riappare il tema sinuoso dell’attacco, curiosamente prossimo alla cosiddetta Fuga “del gatto” di scarlattiana memoria: prima dell’irresistibile chiusa che, preceduta dall’efficace sospensione su una dissonanza, quasi sorprendente coup de théâtre, strapperà l’applauso verrebbe da dire a scena aperta.