Bacchetta sciatta e superficiale quella del direttore, che ha diretto il doppio appuntamento musicale della sera di Capodanno al teatro Verdi di Salerno
di OLGA CHIEFFI
Nulla di più estetico della pedalata di Fausto Coppi, la “magnificenza della perfezione”, scrisse il nostro poeta Alfonso Gatto, l’eleganza di un ballerino classico, il completamento della sua figura, e di contro del direttore d’orchestra Andrea Albertin, a Capodanno sul podio della Filarmonica Salernitana per il doppio concerto, che ha rovinato con una direzione superficiale, sciatta, obnubilante, quanto il suo frac. Qualcuno sotto i video sui social ha accostato Andrea Albertin ad Antonio Scannagatti, ovvero al Totò direttore della banda di Caianello, nel grandioso e musicalissimo finale di “Totò a colori!”, invenzione e improvvisazione di un genio, elegantissimo in “sciassa”, la famosa marsina, bombetta e pennacchio, capace di passare dalla quadriglia al Flick-Flock dei Bersaglieri: ma si sa, il Principe è di tutt’altra pasta i cui ingredienti sono ritmo e creatività. Andrea Albertini è riuscito, invece, a sconvolgere una formazione rodatissima, quale è l’Orchestra Filarmonica Salernitana, che in pagine come quelle eseguite a Capodanno, in repertorio da anni, quali l’ouverture della Gazza Ladra di Gioachino Rossini, che aperta dall’imperturbabile rullo di Rosario Barbarulo, l’unico che non si è lasciato andare ai colpi di bacchetta, intercalati dal continuo tirar su i pantaloni di un frac troppo ampio, ha assorbito in questo turbinio di ritmi alterati, suoni e agogica incrinata, addirittura il piattista. Ansia, entusiasmo, atmosfera scoppiettante in teatro? Non si sa cosa sia potuto capitare al Maestro Albertin, che è stato letteralmente “salvato” dalla professionalità di un’orchestra che aveva già affrontato un importante matinée per il Ravello Festival, sostenendo nomi quali Vittorio Grigolo e la Mariangela Sicilia, con le scelte interpretative di un altro direttore e altre voci. L’arte di chi sale sul podio è giusto quella di mettere a proprio agio chi esegue, quindi ha da conoscere le difficoltà di tutti gli strumenti che si hanno in quel momento a disposizione e in partitura, dal I violino allo scopertissimo triangolo che deve “suonare”, bilanciando spazio, suono e intenzione.
Quando, poi, a tutto questo vi si aggiungono i cantanti cambia ancora l’assetto, poiché per arie come “Quando men vo’” ovvero il valzer di Musetta da Bohème o “Lucevan le stelle” bisogna dar modo ai solisti, ma voglio usare un termine di gergo, “a chi sta avanti” all’ orchestra, a chi in quel momento rischia tutto, di non essere lasciati sospesi in un’ingannevole lucidità, galleggiante su di un oceano opaco, attraverso cui si intravvedono “paurosamente limpidi” i mostri della profondità di kafkiana memoria. Ritmi forsennati per la Danza di Rossini, che ha costretto Concetta Pepere e Raffaele Abete a non poter distendere il canto e a ritrovarsi quasi sempre soverchiati dall’orchestra.
Voci con diversi numeri quelle che abbiamo ascoltato, dal timbro morbido e teatrale che ne hanno contraddistinto e continueranno certamente a caratterizzare la carriera dei due solisti, con la parola scolpita e quella verve e nonchalance che si deve ad un gala di Capodanno, ma che in arie quali l’addio alla vita di Mario Cavaradossi o il finale dell’aria di Lauretta hanno da cedere il passo ad una straziante malinconia, contrasti appiattiti dalle scelte direttoriali. Abbiamo avuto difficoltà a immaginare roteare coppie sui ritmi ternari dei waltz straussiani, così come ricordiamo che nella Die Lustwige Witwe, Hanna ha organizzato nel suo palazzo una festa in costume pontevedrino; la vedova canta questa malinconica ballata, e il pubblico deve poter cogliere i suoi ammiccamenti, i suoi sospiri, le sue riflessioni, nella canzone di Vilja e delle sue pene d’amore: una situazione condivisa da lei che non giunge a dichiararsi a Danilo. L’Intermedio de’ La Boda di Luis Alonso, che ha introdotto Granada, con la tromba di Raffaele Alfano, in grande spolvero, nonostante gli stacchi di tempo sopra le righe, ha posto in buona luce il tenore che ha sfoderato lo squillo latino e sensuale. “Libiam nei lieti calici!” ha poi infiammato il teatro, ma è una pagina che pur asconde, nel motto di Violetta, una disperata consapevolezza di vanitas. Applausi, coriandoli e Radetzky march prima di uscire dal massimo per continuare a vivere “ la notte (che) abbella e il riso,/ in questo paradiso/ne scopra il nuovo dì”.