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“La vita davanti a sé”, per risolverla basta “Voler bene”

  • Marzo 27, 2023
  • Olga Chieffi
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Intensa interpretazione di Silvio Orlando, nel monologo tratto dall’omonimo romanzo di Romain Gary, che nel finale si è esibito anche al flauto, suo primo amore

di OLGA CHIEFFI e GEMMA CRISCUOLI

Lui e la felicità appartengono a razze diverse : Momò era solo un bambino quando lo ha capito. Eppure quella frase conclusiva, “Bisogna voler bene”, nella sua nudità e concretezza, suona talmente vera da sgomentare anche chi non si aspetta più nulla da una vita “schifa”. Commozione e ironia s’intrecciano in “La vita davanti a sé”, lo spettacolo, interpretato e diretto da Silvio Orlando, tratto dall’omonimo romanzo di Romain Gary, che ha riscosso un pieno successo presso il Teatro Verdi.  Ad ampliare le suggestioni dell’allestimento interviene l’Ensemble dell’Orchestra Terra Madre. Il protagonista, un arabo nato da una prostituta, cresce, insieme ad altri pargoli nella sua identica condizione, nell’appartamento di un’ex peripatetica a Belleville, Madame Rosa, ebrea rude e bonaria che incassa piccole somme per accudire i piccoli e non ha mai dimenticato il trauma della persecuzione nazista : ha infatti predisposto qualche mobile in cantina per nascondersi da eventuali aggressori. La scenografia riflette le atmosfere di questo mondo povero e vivace : il palazzo in cui vivono i personaggi (l’amabile travestito Lola, i volenterosi facchini che scarrozzano ovunque la monumentale Rosa) dà l’idea di essere stato creato assemblando scatole di cartone, allusione alla fragilità, ma anche alla persistenza del vissuto, e presenta fili di luci che evocano un tendone da circo. È appunto il mondo circense ad affascinare Momò, perché lì nessuna angoscia è ammessa, proprio come accade con la sala di doppiaggio, in cui si ritrova quasi per caso, e dove una pellicola è riavvolta all’indietro, quando si commette un errore: ecco che i vecchi ringiovaniscono, i morti risorgono, l’irreparabile è allontanato. In fondo, è proprio questo che vorrebbe il ragazzino: tornare al momento in cui tutto è ancora possibile e la gioia attende di essere costruita. Poiché però il copione della vita è decisamente inferiore a un film, Momò è costretto a imparare dalla propria amarezza quanto sia complicato stare al mondo. Butta in un tombino i soldi ottenuti vendendo il suo amatissimo cane, perché intuisce che vivere non può ridursi a un portafoglio pieno. Il suo bisogno di avere una madre che possa accoglierlo lo spinge a rubacchiare lì dove ci sono donne, ma il furto di un uovo gli procura solo la carezza benevola della signora al bancone, dimostrando quanto sia illusorio l’amore. E’, tuttavia, proprio questo sentimento a unire il bambino e l’ebrea e a tradursi in tenerezza, cura, simbiosi: è proprio nella cantina che Momò condurrà la donna, in gravi condizioni, ma decisa a non andare in ospedale, e lì la veglierà dopo la sua morte, truccandola per prolungare il ricordo di ciò che è stata e ha rappresentato per lui. Il grande merito della messinscena consiste nell’emozionare senza mai cedere all’enfasi e alla retorica. Il dolore è spesso presentato in un’ottica sarcastica che non lo depotenzia, ma gli restituisce spessore : la defecazione del protagonista, che spera così di attirare le attenzioni della vera madre, chiunque essa sia, e che assume toni apocalittici nel momento in cui gli altri bambini fanno altrettanto, è comicamente vissuta dalla loro protettrice al pari della permanenza ad Auschwitz. Per sbarazzarsi del padre di Momò, che lo rivuole dopo un lungo periodo in ospedale a seguito dell’uccisione della madre, Madame Rosa gli fa credere che il figlio sia un bambino ebreo, procurandogli, così, un provvidenziale infarto: qualunque arabo, infatti, si schianterebbe al suolo dinanzi alla ferale notizia. Razzismo, solitudine, pregiudizio, rimozione, voglia di mettersi in gioco sono vissuti senza filtri per ricordare che è la mescolanza, il sincretismo, la fusione con ciò che altri considerano alieno a dare sostanza al vivere, come nel tentativo dei danzatori neri di liberare la vecchia dal suo malessere e nella performance musicale che Orlando esegue alla fine della vicenda con gli altri artisti. L’attore costruisce le figure in scena in modo così credibile e intenso da spingere lo spettatore a non perdere neppure una parola. Nella conclusione, quando Momò ha ormai trovato una famiglia amorevole, è di nuovo narrato l’episodio dell’uovo. In questo simbolo di ciclicità e rinascita, la sofferenza non scompare, ma si rigenera e al tempo stesso sboccia una nuova possibilità. Riavvolgere il nastro della vita è ancora possibile. La musica e, in particolare gli strumenti, è legata al racconto, ne è l’essenza. Se prima dell’apertura del sipario è partito l’allegro del Concerto in re maggiore per flauto traverso, archi e basso continuo “Il gardellino”, op. 10 n. 3, RV 428 di Antonio Vivaldi, un chiaro omaggio alla produzione, lo spettacolo ha vissuto sul tema conduttore di completare il racconto di questo quartiere multietnico di Parigi c’è la musica suonata dal vivo dall’Ensamble dell’Orchestra Terra Madre. Tema conduttore è stato “Padam… Padam“, un classico di Edith Piaf, mescolato poi a brani klezmer e a musica araba e del centro Africa, mentre il pop francese arriva da un vecchio 45 giri suonato e risuonato, come terapia contro ogni tristezza, dal mangiadischi di Madam Lolà. Partendo dall’ambientazione di una Parigi romantica e retrò del romanzo, e unendola all’atmosfera multietnica del quartiere di Belleville, Simone Campa ha creato una colonna sonora con un ensemble multietnico con musicisti da Senegal, Marocco, Francia e Italia, lo spettatore viene di volta in volta accompagnato in scene musicali di terre lontane e riti voodoo, con percussioni e voci africane; passeggiate sotto la Tour Eiffel, con valzer e chansonnes francesi; echi di medioriente con musiche e ritmi arabi, momenti di malinconica gioiosità della musica yiddish e klezmer, tipica degli ebrei dell’Europa orientale. Nel finale Kaw Sissoko suona una splendida Kora finemente decorata oltre che il djembè, Maurizio Pala imbraccia la fisarmonica, Simone Campa alla chitarra e Gianni Denitto lascia il clarinetto per un saxalto lietamente zurzolesco, mentre scopriamo il Silvio Orlando flautista il quale da ragazzino che non è riuscito a fare della musica la sua professione, optando per il teatro. Ninna nanna alla Kora, quindi il “Gam Gam” e per finire la nostra tarantella brano di forte libertà interpretativa, che si contraddistingue per il suo virtuosismo in un distillato di timbri popolari in sincretismo di infinita energia, in cui è superata ogni barriera di separazione tra popoli e religioni che rivivono in una incalzante syntesis di ritmi e armonie.

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