Il 4 agosto la musicista albanese dividerà il palcoscenico dell’Opera nazionale di Tirana con il tenore Charles Castronovo e il Maestro Jacopo Sipari di Pescasseroli, protagonista di un gala molto particolare, imperniato sui preziosismi del repertorio francese, racchiusi nel suo album di debutto Anima Rara. Abbiamo raggiunto il soprano dopo il successo unanime della sua Madama Butterfly al Festival d’Aix-en-Provence
di OLGA CHIEFFI
Sarà il concerto dell’anno quello che il soprano Ermonela Jaho e il tenore Charles Castronovo terranno il 4 agosto all’Opera di Tirana, sostenuti dalle masse orchestrali del teatro, dirette dal Maestro Jacopo Sipari di Pescasseroli. Un programma intessuto di preziose gemme della scuola francese, un Massenet di nicchia da Sapho a le Cid, quindi la sua Manon e Thais, pagine incise nel suo ultimo lavoro Anima Rara, quindi, una seconda parte dedicata ad autori e titoli attesi dal pubblico, in cui Ermonela Jaho, che abbiamo avuto il privilegio di ascoltare a Salerno al teatro Verdi far musica assoluta nell’Adriana Lecouvreur insieme al Maestro Daniel Oren, ritroverà la sua Violetta, Magda e ancora Adriana.
Abbiamo raggiunto il soprano dopo il successo unanime della sua Madama Butterfly al Festival d’Aix-en-Provence.
Signora Jaho, che significato ha questo Gala, in terra d’Albania, nel suo teatro?
“Ha un senso profondo cantare nel teatro dove a quattordici anni vidi la mia prima opera, “La Traviata”, e scelsi, sulle note di Verdi, di diventare una cantante per poter dar voce, almeno una volta nella mia vita, a Violetta. Il sogno è nato in quel teatro e qui sarò, ancora una volta, Violetta. Per me l’opera è diventata negli anni un qualcosa di molto spirituale e nel mondo della lirica attuale è difficile esprimere questa visione ai manager o agli organizzatori. Scelgo unicamente le proposte in cui veramente possa “dire” qualcosa e possa eccellere”.
Ha già lavorato con il Maestro Sipari? Quali caratteristiche rinviene, adatte al programma scelto, nella bacchetta del direttore abruzzese?
“Sarà un debutto con Jacopo Sipari, ma l’ho già visto lavorare. Farà sicuramente bene con questo repertorio, che naturalmente è una sfida. Lui possiede e trasmette una forte energia, ho percepito il suo sentire che sfocia nell’empatia e in quelle good vibes che mi hanno convinta a proporre, nonostante il tempo di prova sia ristretto, il repertorio francese attraverso cui, sono certa, riusciremo a lasciare qualcosa di significativo al pubblico”.
Dietro una grandissima artista c’è sempre un pari maestro. Quali i suoi e a quali modelli si ispira?
“Ho avuto tanti maestri e da ognuno ho carpito qualcosa. Ho sempre studiato e la ricerca è continua. Ancora oggi mi affido ad una Maestra, il mezzo-soprano Catherine Green, moglie di Alan Green, il mio manager newyorkese, dove vado dopo ogni produzione, per controllare e rivedere il set-up del mio strumento, lavoro anche con Alan, ma su tutti mi faccio ascoltare da mio marito Ervin Stafa, col quale ho studiato in gioventù musicologia. Sono molto attenta alle critiche, chiedo sempre, non sono arrivata da sola a questi livelli e l’importante è sentirsi sempre studenti, allievi, lo studio non basterà mai: è questo il mio lavoro e bisogna affrontare tutto con estrema umiltà. Si deve aspirare sempre alla perfezione, a quella solidità tecnica che, in palcoscenico si trasformerà in libertà, per poi poter pensare esclusivamente al sentimento e all’emozione”.
Come mai solo nel 2020 un album di debutto, questo “Anima Rara”, all’interno del progetto “Opera Rara”, etichetta che ha quale mission registrare, eseguire e promuovere il patrimonio operistico perduto del XIX secolo e dei primi anni del secolo breve?
“Oggi si teme di andare a cantare opere quali la Lodoletta, la Bohème di Leoncavallo, o Iris e ancora Pagliacci, la stessa Madama Butterfly, nel modo in cui sono state pensate dal compositore e a quali voci siano state dedicate. Opere queste in cui la tragedia assolutamente non può espressa in una competizione di urla, come oramai avviene abitualmente. Sono un lirico puro e insieme allo staff di Opera Rara abbiamo aperto i manoscritti ed effettuato ricerche storiche su chi avesse fatto rivivere quelle eroine. Così, ci siamo concentrati sulla Rosina Storchia, alla quale Leoncavallo, Puccini, Giordano e Mascagni attestarono ripetutamente la loro stima, riconoscendole una singolare intelligenza interpretativa e una voce intonatissima, calda e omogenea in tutta la gamma, unita alla disinvoltura e l’eleganza con cui si muoveva in teatro, dove, come documentano le numerose fotografie e il ricordo della scrittrice amica Ada Negri, sapeva rivelare uno sguardo intenso e profondo, dando il giusto valore espressivo ad ogni accento, ad ogni parola, ad ogni gesto anche apparentemente insignificante. Questo è il verismo che posso affrontare, certo non andrò a cantare Turandot o Minnie de’ La Fanciulla del West, che hanno bisogno di un altro tipo di vocalità”.
Lei ha un repertorio estesissimo, da Monteverdi all’intero verismo ed oltre, in questo suo ricercare una interpretazione emozionale, di ogni suono e parola, quanto ci sta della “teoria degli affetti”?
“E’ un collegamento questo con la teoria degli affetti che è condivisibile, il rapporto tra la musica, i sentimenti che essa rappresenta e gli effetti che produce sull’animo umano, l’intelligibilità della parola, le passioni dell’animo umano, gli stili, concitato, molle, temperato. Ma io desidero guardare più indietro, alla musica e al teatro greco, alla loro funzione catartica, dove il suono connette le anime e bisogna cantare i sentimenti. Trasmettere un’emozione significa lavorare sul dettaglio, sui colori, il cesello della nota, non ricercare l’acuto, di per sé, non urla con la voce, ma con l’anima. La perfezione non esiste. Sono proprio il dubbio, l’incrinatura, l’imperfezione le caratteristiche dell’uomo, cose sconosciuta all’intelligenza artificiale che non avrà mai il sopravvento. Fino ad ora sono riuscita a rivelare l’anima delle eroine che interpetro, chissà domani”.
A proposito del domani. Lei pensa a cosa farà quando lascerà le scene? Si darà all’insegnamento? Come si prende una tale decisione?
“Mi ritirerò quando mi accorgerò di non poter più comunicare la mia emozione, per usura della voce o per altro. Ho sulle spalle trentuno anni di carriera, più di trecento Violette, centottantasette Butterfly, anche se in Francia, nell’ultima produzione ho potuto riviverla come se fosse la prima volta e imparare dal cast di attori giapponesi, entrando nella loro gestualità, nella loro cultura. Si mi darò all’insegnamento, mi piace, tengo masterclass in tutto il mondo e ripongo speranze in tre talenti kosovani. Bisogna conoscere i propri limiti, lasciare il posto ai giovani, lo considero un dovere, e trasmettere loro la propria esperienza, unitamente a questo patrimonio enorme che l’Italia ha creato e portato avanti, dando lezione a tutto il mondo. Io sono albanese e parlo italiano grazie all’opera”.
Come guarda il mondo dell’opera oggi? Grandi teatri in mano ai manager? Almeno in Italia?
“Effettivamente in particolare oggi tutti cercano far azzardare ruoli anche per i quali non si è consoni o ancora pronti. Le prove sono poche, non c’è il tempo di ricercare il dettaglio, il più delle volte ci si ferma alle note e non si fa musica. Tra l’altro il teatro d’opera comprende tutte le altre arti sorelle ed è sempre più difficile, correndo, far lasciare il teatro al pubblico con l’occhio umido e una melodia in testa. Io ho cercato sempre di essere fedele alla mia visione e insieme ai miei manager ho pronunciato tanti no. Forse, ho perso delle occasioni che non verranno più, ma ho mantenuto la mia linea di coerenza e rispetto nei confronti della musica”.
Ha un ruolo, un sogno che è rimasto chiuso nel cassetto e che vorrebbe debuttare?
“Sogni non ne ho. Ho un diario segreto che scrivo dall’età di dodici anni. Lì vivevo in un mondo a parte, lì ho scritto di tutte le eroine che avrei voluto impersonare e lo ho fatto. Ripongo i miei sogni nei giovani. Ora vivo ogni recita come fosse l’ultima, dando tutta me stessa ogni qualvolta salgo sul palcoscenico che lascio sempre baciandolo, poiché forse lì non tornerò più”.
Sarà, allora, Ice & Fire, ancora una volta, Ermonela Jaho, sul suo palcoscenico dell’Opera di Tirana: freddezza tecnica e passione, fedele alla sua filosofia dell’opera che rende infinito l’istante, un istante che nasce, grazie a quell’ ostinato coraggio nel seguire e perseguire instancabilmente, unicamente la musica, con, come unico obiettivo, aleatorio, rischioso, iniziatico, l’approdo ad un reale che restituisca a noi un qualcosa di una scena segreta nella quale le emozioni si saldano al racconto, al canto e ai suoni, continuando a salire quella scala che, sappiamo bene, in arte non porterà mai a qualcosa di definito, ma rappresenterà unicamente un avvicinarsi, tendere, aspirare continui, a qualcosa che sempre mancherà, che non si ottiene, simbolo di un sogno, di quella eterna recherche, per la quale varrà la pena battersi, fino alla fine.