L’opera di Carl Orff ha chiuso in laetitia la LXXII edizione del Ravello Festival nell’incanto di un belvedere di Villa Rufolo, sold out. Sugli scudi la splendida voce del baritono Markus Werba unitamente agli altri due interpetri il soprano Maria Sardaryan, e il tenore Levy Sekgapane. Applausi convinti per le masse orchestrali e corali del teatro Verdi, “domate” su di un palco non facile da Jordi Bernàcer
di OLGA CHIEFFI
Belvedere di Villa Rufolo sold out per il gran finale della LXXII edizione del Ravello Festival, che si è affidato al teatro di riferimento, il massimo salernitano, che con le sue masse orchestrali e corali, ha eseguito, guidato da Jordi Bernàcer, la complessa partitura dei “Carmina Burana” di Carl Orff, con solisti il baritono Markus Werba, il soprano Maria Sardaryan e il tenore Levy Sekgapane. Il fascino maggiore dell’opera risiede nel suo acceso vitalismo, che si manifesta soprattutto nel gusto per un’insistita, persino ossessiva iterazione ritmica, consentita dal nutrito numero di strumenti a percussione e in quella sensibilità timbrica di cui l’orchestra è latrice. E’ un’ orchestra-risorsa quella di Orff, un particolare insieme dinamico in cui l’autore ha posto i suoi pannelli statici. Infatti, Orff ignora lo sviluppo o la variazione, sostituiti da ritorni ripetitivi, ignora il contrappunto, sostituito dalla presenza ossessiva di ossessivi ostinati, con quei suoi giri armonici assolutamente elementari. Ne deriva, quindi, quel climax spesso sospeso, incantatorio, come di quadri statici. Orff, però, conosce vari modi per riscattare questa staticità. Il più evidente è l’estremo dinamismo dei suoi ritmi. Gli strumenti dell’ orchestra, sono impiegati in funzione “cinetica”, ovvero per scandire i ritmi stessi dell’azione, dalla stabilità all’apparizione improvvisa, dal moto irruento all’evanescenza, fino alla catastrofe. Ogni pannello della sua opera è si un quadro statico, ma proprio la differenziazione timbrica, la diversa orchestrazione, diventa molla essenziale per la vitalità dell’insieme. Il coro del Teatro dell’Opera di Salerno, preparato da Marco Ozbic, ha avuto a che fare, indi, con recuperi di modelli arcaici, quale quello del cantus planus, con l’uso di intervalli di quarta e quinta paralleli alternati a intervalli di terza, a capricciosi andamenti ritmici delle voci in “Floret Silva”, con l’ansia erotica di “Veni, veni, venias”, in stile di canto spezzato e sillabico, scrittura di non facile esecuzione, per la quale occorre una solida preparazione musicale e in cui si è caduti in una poca attenzione alla pronuncia di dittonghi e grafemi, su di un palco molto difficile, poiché apertissimo, ma dal quale ne sono uscite molto bene le voci bianche guidate da Silvana Noschese.
Di vaglia i solisti scelti dal direttore artistico Maurizio Pietrantonio, a cominciare dal baritono Markus Werba, voce dal piglio convinto, ma allo stesso tempo calda e con dizione perfetta, da applausi in Estuans interius, parodia della confessione, anche se avremmo gradito un tempo leggermente più veloce e scandito, alla sua interpretazione ironica e indovinata dell’abate ubriacone “Ego sum abbas”, la benedizione di bevitori e giocatori da parte dell’abate di Cuccagna resa dalla parodia del tono salmodico, sino al duetto col soprano in “Tempus est iocundum” , infantilmente giocoso, schizzato insieme al coro delle voci bianche, un tempo quello dei giochi simboleggiato anche dai dieci anni del piccolo Joseph D’Acunto, festeggiato in-canto sul palco più bello del mondo. Soddisfacente l’esecuzione della pittura del lamento del cigno arrostito, da parte del tenore Levy Sekapane, con acuti pieni e non nell’abituale falsetto, mentre felice sorpresa è stata quella di Maria Sardaryan, eterea in Stetit puella, di impronta iberica, seducente nel lungo melisma sull’interiezione “eia”, preziosa In trutina, in cui ha saputo ben sottolineare gli inattesi echi pucciniani, sicura, nel registro acuto nell’esecuzione dell’estatico melisma di Dolcissime. In orchestra un po’ di luci e ombre, a cominciare dalla alterna prova delle percussioni, dignitosa, ma mai in presenza delle trombe, da rivedere, con flauti in grande spolvero nella loro ricerca di evocare il suono antico, con Antonio Senatore e Vincenzo Scannapieco, come anche il primo fagotto, Antonello Capone, nel suo inimitabile suo solo e il I corno Giovanni Mainenti. Tra le percussioni menzione per lo “show” del piattista Rosario Barbarulo e per il timpanista Vincenzo D’Acunto, impegnato in una ardua performance, soprattutto fisica, per offrire la suggestiva timbrica ed essere giusto riferimento dell’orchestra orffiana.
Dalla ripetizione ostinata di motivi ciclici e roteanti, si è conseguito spesso un effetto di euforico stordimento, di ebbrezza, grazie alla bacchetta di Jordi Bernàcer, partendo da un Prologo che con il suo attacco travolgente ed una melopea ripetuta all’infinito, sempre più veloce invoca la Fortuna Imperatrix Mundi, cieca dispensatrice di gioie e d’affanni. Sotto il volgersi incessante della sua ruota simbolica si sono svolte le scene successive, dove le figure del “Welttheater”, il teatro del mondo, travolte nel ciclo d’un movimento eterno sono sfilate da protagoniste di “Primo Vere”, tinta di malinconia, di “in Taberna”, dal rude realismo, e “Cour d’amour”, la più vivace, fino all’ “Inno a Venere” e, secondo la circolarità di concezione che informa tutta l’opera, il coro iniziale. L’interpretazione corale e teatrale, che Orff vuole di quei canti originariamente così semplici, è carica di ideologia, tanto più perché sembra dirci che quel Medioevo è qui tra di noi, vive nel nostro tempo, è festa delle nostre feste, ritmo dei nostri ritmi, voglia di cantare della nostra voglia di cantare. E’ un Medio Evo moderno che si è presentato musicalmente con il violino che, Mirela Lico ha pensato felicemente diabolico, sulle tracce dell’Histoire du soldat di Stravinskij, o il grottesco della Marcia dell’Amore delle tre melarance di Prokofiev: una caricatura, ma seria, un’ironia, ma carica d’ammirazione, un gioco, ma carico d’impegno. Applausi per tutti e bis, un messaggio dal Ravello Festival, affinchè si rinnovi la speranza per ri-vivere il tempo “pieno” del “Tempus est iocundum”.